La terza rivoluzione del nostro vino la fanno gli under 30
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Ogni anno emergono sempre spunti nuovi da cogliere e chi, come il sottoscritto, frequenta Vinitaly da trent'anni può dire di aver visto passare, nello scambio fra generazioni, una triplice rivoluzione del vino. Ora, la prima grande rivoluzione coincide proprio con l'espansione di questa fiera a partire dalla metà degli Anni Settanta: si assottigliavano le cantine che vendevano vino sfuso, fenomeno in auge nel Dopoguerra e fino all'inizio degli Anni Ottanta, e arrivavano le aziende vitivinicole con tanto di bottiglia ed etichetta. Un passaggio epocale per alcuni, che significò mettersi in mostra (da qui il successo di una fiera dedicata al vino) e quindi dare visibilità ad un lavoro agricolo che stava per aprirsi a nuovi mercati. In questo passaggio delicatissimo, nel 1986, scoppiò lo scandalo del vino al metanolo, retaggio di un commercio di vino sfuso (arricchito da dosi massicce di alcol metilico) che non avrebbe più avuto storia. La seconda rivoluzione porta la data, a mio avviso, del 1990: grande annata del vino come pure le tre precedenti, ma soprattutto anno di numerosi investimenti nel medio e lungo periodo in nuove cantine. In quell'anno si affacciano nuovi giovani produttori, suggestionati dal successo dei produttori nostrani (Gaja, Bologna, Zanella, Antinori, per fare alcuni nomi) che avevano scelto di andare a confrontarsi nel mondo (Francia, California, ma anche Georgia) per iniziare l'avventura del vino italiano di qualità. E a quel tempo, nei convegni, si litigava su due argomenti: «Barrique sì e barrique no» e sulla scelta tra vitigni autoctoni, anche rari, e vitigni internazionali (chardonnay, cabernet, merlot). Alla fine, la verità che sta sempre nel mezzo, decretò che la barrique bisognava saperla usare quando serviva, altrimenti era un costo inutile; mentre l'Italia, sulla scelta dei vitigni, non poteva ridursi all'impoverimento di poche scelte, avendo l'opportunità di giocare la carta della sua straordinaria biodiversità.
Ogni anno emergono sempre spunti nuovi da cogliere e chi, come il sottoscritto, frequenta Vinitaly da trent'anni può dire di aver visto passare, nello scambio fra generazioni, una triplice rivoluzione del vino. Ora, la prima grande rivoluzione coincide proprio con l'espansione di questa fiera a partire dalla metà degli Anni Settanta: si assottigliavano le cantine che vendevano vino sfuso, fenomeno in auge nel Dopoguerra e fino all'inizio degli Anni Ottanta, e arrivavano le aziende vitivinicole con tanto di bottiglia ed etichetta. Un passaggio epocale per alcuni, che significò mettersi in mostra (da qui il successo di una fiera dedicata al vino) e quindi dare visibilità ad un lavoro agricolo che stava per aprirsi a nuovi mercati. In questo passaggio delicatissimo, nel 1986, scoppiò lo scandalo del vino al metanolo, retaggio di un commercio di vino sfuso (arricchito da dosi massicce di alcol metilico) che non avrebbe più avuto storia. La seconda rivoluzione porta la data, a mio avviso, del 1990: grande annata del vino come pure le tre precedenti, ma soprattutto anno di numerosi investimenti nel medio e lungo periodo in nuove cantine. In quell'anno si affacciano nuovi giovani produttori, suggestionati dal successo dei produttori nostrani (Gaja, Bologna, Zanella, Antinori, per fare alcuni nomi) che avevano scelto di andare a confrontarsi nel mondo (Francia, California, ma anche Georgia) per iniziare l'avventura del vino italiano di qualità. E a quel tempo, nei convegni, si litigava su due argomenti: «Barrique sì e barrique no» e sulla scelta tra vitigni autoctoni, anche rari, e vitigni internazionali (chardonnay, cabernet, merlot). Alla fine, la verità che sta sempre nel mezzo, decretò che la barrique bisognava saperla usare quando serviva, altrimenti era un costo inutile; mentre l'Italia, sulla scelta dei vitigni, non poteva ridursi all'impoverimento di poche scelte, avendo l'opportunità di giocare la carta della sua straordinaria biodiversità.
La terza rivoluzione è dei giorni nostri, e tocca tutte le cantine che hanno dentro dei giovani sotto i trent'anni. Quelli che vogliono rendere ragione del proprio vino, in vigna e in cantina, raccontando la storia di un'agricoltura sostenibile, con meno chimica e quindi più pulita. E questa esigenza, che ha portato, come le altre due, rivoluzioni e scontri generazionali piuttosto intensi, coinvolge sia chi dichiara di produrre vino biologico o biodinamico e sia chi ha scelto la strada «convenzionale», dove tuttavia la chimica è messa sempre di più in un angolo. È un tipo di rivoluzione più morale che economica e di marketing ed è maturata proprio dentro a un sentire comune dei giovani di questa generazione, in tutto il mondo. Anche il vino ne ha beneficiato. E per questo a Vinitaly bisogna alzare orgogliosi i calici. I nostri giovani ci sono!
LA STAMPA.it 06.04.2014